Il Codice Filippino nasce come un testo complesso, concepito come un oggetto di lusso, scritto ed illustrato per un colto committente, per poi trasformarsi in uno strumento di studio fino alla fine del sec. XV.
Sono testimonianza del dibattito interpretativo sulla Comedia le chiose, che corredano il testo dantesco: filologia e critica dantesca, annotata da dotti lettori esegeti, già dopo breve tempo dal confezionamento della trascrizione della Divina Commedia.
Le chiose sono glosse e postille interlineari e marginali: le prime chiariscono la lettera spiegando le parole (metodo filologico e analisi grammaticale); le altre esplicitano il significato spiegando il senso con varie argomentazioni (storiche, filosofiche, teologiche, astronomiche, geografiche o mitologiche).
Il commento del Codice filippino non presenta un solo tipo di scrittura e un unico colore d’inchiostro, quindi non è di una sola mano, né è stato redatto in un solo anno: ci troviamo di fronte a vari commenti annotati nel corso di diversi anni.
Intorno ai versi di ogni pagina, soprattutto nelle prime due cantiche, talvolta vi sono postille tanto copiose da non lasciare comparire che pochissimo spazio vuoto.
Le più antiche notazioni marginali e interlineari sono in latino, estese a tutto il poema, ma sensibilmente più fitte nella prima cantica, dove fungono anche da didascalia delle miniature.
Le postille introducono verbalmente il contenuto della illustrazione provvedendo a precisare la porzione del testo dantesco cui la miniatura pertiene o a chiarire la funzione allegorica del contenuto raffigurato.
Nella complessa compagine testuale del Filippino si crea una sorta di procedimento circolare per cui dal testo si genera una immagine che a sua volta produce altri segmenti testuali.
Le didascalie sottolineano il valore esegetico delle immagini, in una prospettiva morale: così che il lettore del Filippino rifletta sulle conseguenze dei propri comportamenti e modifichi le proprie azioni.